Nelle ultime settimane si sta sentendo molto parlare del Ddl Zan, il disegno di legge in attesa di approvazione, che prevede “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. La vicenda ha scatenato la polemica sul tema dell’omofobia, coinvolgendo personaggi dello spettacolo e politici.
Quali sono le vostre conoscenze rispetto a tali argomenti?
In questo articolo abbiamo deciso di fare un pò di chiarezza sui temi dell’omosessualità e dell’omofobia, fornendovi il nostro contributo per quel che concerne ovviamente la nostra area di pertinenza, ossia quella psicologica.
Fino agli inizi del 1900 era quasi esclusivo, anche in ambiente scientifico, il paradigma di identificazione dell’omosessualità con una patologia psichiatrica, in base al quale lesbiche e gay venivano considerati come sessualmente pervertiti o, nei casi di maggiore tolleranza, come il risultato di un incidente biologico.
Nel corso dei secoli l’omosessualità maschile e il lesbismo sono stati considerati dalla cultura occidentale prima come un peccato, poi come una malattia mentale e infine un problema legale (Falco, 1991). La diretta conseguenza di questa visione nella pratica clinica era dunque la diagnosi e la cura dell’omosessualità.
Le ricerche condotte negli anni ’70 e ’80 negli Stati Uniti hanno però modificato profondamente queste convinzioni. L’omosessualità ha cominciato ad essere interpretata come una realtà molto più ricca e complessa di quanto prima si fosse immaginato, e i risultati dello studio psicologico compiuto su campioni di persone omosessuali confrontate con persone eterosessuali non hanno supportato la credenza che l’omosessualità sia di per sé un disturbo mentale.
Nel 1973 l’American Psychiatric Association (APA) rimosse l’omosessualità dalla lista delle patologie mentali incluse nel Manuale Diagnostico delle Malattie Mentali (DSM), decisione che fu poi confermata con la terza edizione del DSM-III, fino a quella tuttora in vigore del 2015 (DSM-5).
Sulla scia di tale decisione, anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 1993 ha accettato e condiviso la definizione non patologica dell’omosessualità, depennandola dalla lista delle malattie mentali.
È stata introdotta la definizione dell’omosessualità come variante non patologica del comportamento sessuale: le persone omosessuali possiedono un’identità psichica suscettibile alle patologie né più né meno di quella degli eterosessuali.
L’antico modello di interpretazione dell’omosessualità intesa come una patologia veniva così scardinato grazie ai risultati della ricerca empirica e per effetto dell’azione dei movimenti per i diritti gay.
Facciamo chiarezza su alcuni termini.
Sappiamo realmente quale è la differenza tra orientamento sessuale, identità di genere, disforia di genere, transgender, transessuale?
Secondo l’APA “l’orientamento sessuale si riferisce a un modello stabile di attrazione emotiva, romantica e/o sessuale verso gli uomini, le donne, o entrambi i sessi”, è dunque un orientamento verso un sesso (maschile, femminile o entrambi), espresso in termini di attrazione non solo sessuale, ma anche emotiva e romantica. Talvolta la parola “omosessuale” può trarre in inganno, richiamando l’attenzione sul solo aspetto della sessualità, trascurando invece le componenti affettive, romantiche ed emotive che invece sono parte integrante dell’orientamento.
L’orientamento sessuale è strettamente legato, quindi, alle relazioni interpersonali attraverso le quali vengono soddisfatti alcuni tra i principali bisogni relazionali dell’essere umano, quali amore, affetto ed intimità.
Al momento della nascita, in base a come si presentano gli organi genitali esterni, a ognuno di noi viene assegnato un genere: quindi F, femmina, in caso di vulva o M, maschio, in caso di pene e testicoli. Si tratta di una definizione meramente anatomica, mentre con identità di genere ci si riferisce alla percezione di sé stessi come uomini o donne, come appartenenti al genere maschile o femminile. Essa è qualcosa di più ampio rispetto alle semplici caselline M o F da barrare su un certificato di nascita e può comprendere alternative che vanno al di là degli stereotipi binari (M o F). La maggioranza delle persone gay e lesbiche si percepiscono rispettivamente come uomini e donne e sono a proprio agio con il loro genere corrispondente al sesso biologico, ma non per tutti può essere così.
La disforia di genere si riferisce infatti al disagio affettivo e cognitivo che si prova in riferimento al genere con cui si è nati. Consiste in una condizione di scollamento tra il sesso biologico e la propria identità di genere: riguarda tutte le persone che sentono di appartenere a un genere diverso rispetto a quello che l’anatomia assegna loro, oppure che non sentono di appartenere del tutto né al genere femminile né a quello maschile, o la cui identità di genere è fluida, oscillando nel tempo tra il femminile e il maschile.
Transgender è un termine “ombrello”, indica la persona che non segue aspettative, ruoli e atteggiamenti legati al genere assegnato alla nascita.
Transessuale non è uguale a transgender, ma indica quelle persone transgender che, non identificandosi con il proprio sesso biologico, hanno iniziato un percorso di trattamento per modificare il proprio corpo verso il genere in cui si riconoscono.
Che cos’è e come si sviluppa l’omofobia
“In ogni società è insita la necessità di aumentare la propria autostima e il proprio senso di appartenenza attraverso il biasimo per chi è diverso, la sua esclusione, il suo relegamento in posizioni di rincalzo” (Herek, 1991)
Come abbiamo detto l’omosessualità NON è una malattia ma una “variante non patologica del comportamento sessuale”; l’omofobia invece si basa invece sull’idea che l’omosessualità sia una malattia, qualcosa di deviante rispetto alla “normalità” e quindi sbagliata.
Questo pensiero deriva dall’assunto che tutti gli esseri umani nascano eterosessuali e che l’attrazione per lo stesso sesso sia qualcosa che arrivi dopo, una “devianza”, appunto, dalla naturale e normale strada dell’eterosessualità. Dunque, se l’eterosessualità è la norma, tutto ciò che non rientra in questo canone è visto come perverso, patologico, immorale, sbagliato…
Purtroppo in quasi ogni società è assai diffusa la concezione del “diverso” come potenzialmente “pericoloso”. All’interno di ogni gruppo sociale, le diversità, quando presenti, sono ritenute pericolose e, soprattutto se poco conosciute, vengono percepite come ingestibili e dunque da eliminare. Questo avviene perché da quando l’uomo ha iniziato a vivere in gruppo e a formare le prime società, ha sempre dovuto dividere in categorie ben distinte ogni individuo o sottogruppo, allo scopo di autoregolamentarsi. Sapere in maniera chiara chi è nel giusto e chi nel torto permette di decidere in modo veloce chi includere e chi escludere dal gruppo, mantenendo l’ordine e le gerarchie. Purtroppo, o per fortuna, attualmente viviamo in un mondo molto più complesso rispetto alle semplici tribù di cacciatori e raccoglitori, e, si spera, abbiamo maggiori conoscenze e cultura. Oggi, dividere in categorie così nette i comportamenti o le attitudini degli individui non appare più così facile, né tantomeno funzionale.
L’omofobia nasce dunque dalla visione, ancora fortemente presente nella nostra cultura, che l’eterosessualità sia l’unico orientamento sessuale possibile e che l’uomo non possa naturalmente provare attrazione affettiva e sessuale per lo stesso sesso. Questa visione è stata tramandata per secoli dalle figure più influenti della società e dai mass media nell’era moderna, influenzando il pensiero e il comportamento di molti. Noi non nasciamo dunque omofobici, ma questi atteggiamenti vengono acquisiti attraverso l’interazione con gli altri: la famiglia, gli insegnanti, i coetanei e gli amici. Anche le istituzioni possono avere il loro peso poiché inviano alla massa comunicazioni che rinforzano i pregiudizi, favorendo comportamenti aggressivi e discriminatori e di conseguenza tutto questo, nella maggior parte degli omosessuali, provoca angoscia, ansia, disorientamento e tensione interiore.
L’omofobia dunque esiste perché i pregiudizi condivisi vengono supportati dalle maggiori istituzioni sociali e diventano la norma. L’insulto, la violenza psicologica e la discriminazione vengono tacitamente approvati e ritenuti “normali”.
L’istituzione rinforza i pregiudizi individuali e limita il rispetto dei diritti civili degli omosessuali, favorendo il permanere di schemi rigidi di suddivisione all’interno della società (Blumenfeld, 1992).
Gli effetti dell’omofobia incidono notevolmente sulla qualità della vita delle persone omosessuali. Alcune indagini condotte negli Stati Uniti hanno rivelato come un numero altamente significativo di gay e lesbiche subisce una qualche forma di discriminazione e intolleranza. Secondo una rilevazione della fine degli anni ’80 (San Francisco Examiner, 1989), il 5% dei gay e il 10% delle lesbiche del campione intervistato riferiva di aver subito un abuso fisico nell’anno precedente a causa del proprio orientamento sessuale, e circa la metà (il 47%) aveva sperimentato una
qualche forma di discriminazione sul lavoro o in altri contesti di socializzazione. Le ricerche empiriche, inoltre, concordano sul fatto che le reazioni anti-gay mostrano una spiccata correlazione con alcune variabili socio-demografiche e attitudinali (Herek, 1984): l’età avanzata e il basso livello culturale, una confessione religiosa conservatrice e l’autoritarismo, per citarne solo alcune. L’omofobia è l’espressione più visibile del pregiudizio rivolto contro le persone omosessuali, e si manifesta attraverso il pregiudizio individuale, la discriminazione istituzionalizzata e l’omofobia interiorizzata.
Allen LeBlanc, professore di sociologia all’ “Health Equity Institute” della San Francisco State University, nelle sue nuove ricerche pubblicate sul “Journal of Marriage and Family” si occupa proprio di tale “minority stress”, ovvero quel tipo di stress che colpisce le persone che fanno parte di una minoranza (religiosa, etnica o data appunto dal proprio orientamento sessuale) e sono soggetti a discriminazione, prendendo in considerazione l’impatto negativo che esso ha sulla salute degli individui, in termini di ansia, depressione e vissuti post-traumatici.
Omofobia interiorizzata
Un’altra importante conseguenza negativa della visione omofobica predominante nella nostra società è l’omofobia interiorizzata. Ne avete mai sentito parlare?
Con questa espressione si fa riferimento al vissuto omofobico che colpisce gli omosessuali stessi, sottoposti in egual modo degli eterosessuali ai condizionamenti sociali e familiari negativi rispetto al proprio orientamento sessuale. Questo impedisce loro di condurre una vita appagante e serena e di conservare una buona stima di sè.
In questi casi dunque i pregiudizi non provengono solamente dall’esterno, ma i sentimenti negativi da combattere sono il più delle volte anche quelli presenti all’interno della persona, che si trova a vivere un grave conflitto interiore.
È l’omofobia quindi che convince molti omosessuali a non rivelarsi ai propri familiari e amici, a vivere una vita nascosta, oppressi dal peso della condanna e nella stigmatizzazione collettiva. È l’omofobia che fa credere loro che la propria attrazione per una persona dello stesso sesso sia sbagliata, che li fa sentire inferiori e diversi, che fa aumentare la loro autoesclusione sociale, la depressione, l’ansia, fino ad arrivare all’abuso di sostanze stupefacenti e alcol.
Per tutte queste ragioni, solitamente l’omofobia interiorizzata è uno dei temi centrali nella pratica clinica con pazienti omosessuali. Riconoscendo le modalità con le quali queste componenti oppressive operano all’interno della società in cui viviamo, gli psicoterapeuti possono agire per aiutare i clienti omosessuali a rinforzare la loro autostima e a ricostruire un’immagine positiva di sé stessi. È proprio in queste situazioni che la terapia riveste un ruolo fondamentale, fornendo al paziente la possibilità di potersi esprimere senza paura, sentendosi libero dai condizionamenti.
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Bibliografia
American Psychiatric Association. (1973). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (4th ed.). Washington, DC: Author. Tr. It. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano 2002.
Blumenfeld, W. (Ed.). (1992). Homophobia: How we all pay the price
Falco, K. L. (1991). Psychotherapy with lesbian clients: Theory into practice. Psychology Press.
Herek G.M., (1984). Beyond “homophobia”: a social psychological perspective on attitudes toward lesbians and gay men, in “Journal of Homosexuality”, 10, 1-21.
Herek G.M., (1991). The context of anti-gay violence: notes on cultural and psychological
heterosexism, in “Journal of Interpersonal Violence”, 5, 316-333.
San Francisco Examiner, (1989). Results of poll, in “San Francisco Examiner”, June 6.